Poesie di Saffo
La divina Saffo, l’hagné, considerata la più grande poetessa di tutti i tempi, nacque ad
Ereso, nell’isola di Lesbo, da una nobile famiglia, ma la sua vita si svolse a
Mitilene dalla quale, ai tempi della caduta dei Cleanattidi, a causa delle lotte
politiche, fu esiliata per qualche tempo, e di ciò resta testimonianza nel
"marmo pario", un’iscrizione che attesta la sua presenza in Sicilia tra il 607 e
il 590 a. C., perché, a parte un frammento superstite in cui ne accenna
genericamente, …te Cipro e Pafo, oppure Palermo, non ne fa menzione. Rimpatriò poi durante il regno di Pittaco, per il quale non nutriva simpatìa,
considerandolo promotore delle restrizioni che mortificavano l’amore per il
lusso della classe aristocratica, come prova un’ode nella quale si rivolge alla
figlia (bella, dall’aspetto simile ai fiori dorati) inducendola a rinunciare
alla mitra variegata che la fanciulla desidera per le sue chiome perché Pittaco
si scandalizzerebbe, chiamando a testimone il poeta Alceo, con quale vi fu un
vincolo di solidarietà e simpatia, e che di lei in modo lusinghiero scrisse:
Saffo, veneranda, dal soave sorriso, dal crine di viola.
Ben poco sappiamo di Saffo, che ebbe un marito e una figlia, che raggiunse la vecchiaia (infatti, in un papiro troviamo allusioni ad una pelle senile e a capelli bianchi), che era amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell’aspetto ma, soprattutto, che amò molto e che l’amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante.
Saffo fu stimata ed ammirata a Mitilene da molte sue concittadine, che erano solite riunirsi intorno a lei in un centro femminile del culto di Afrodite e delle Muse, una sorta di cenacolo intellettuale, una comunità tra il sacro e il profano definita "tiaso", costituita di sole fanciulle, aristocratiche e nubili, giovani donne che subivano il fascino della superiorità spirituale di Saffo, che da lei apprendevano la musica e la danza, e che l’abbandonavano solo quando poi prendevano marito e seguivano il loro destino, lasciando nell’animo della poetessa l’amarezza del distacco, che non tardava a riversare nei versi ricchi di pathos, intrisi di rimpianto per l’amicizia perduta.
Nei suoi frammenti ricorrono parecchi nomi di queste fanciulle, Attide, Girinna, Arignota, Gongila, Dice, Anattoria, che Saffo ammirava, stimava e celebrava, esaltandone le lodi e la bellezza, festeggiandone con gioia le nozze e lamentandone la partenza per terre lontane, con versi armoniosi e di rara bellezza, testimonianza preziosa del suo canto e dei suoi sentimenti. Di Gòngila esaltò soprattutto la bellezza, che era tale da offuscare quella della stessa dea:
Ben poco sappiamo di Saffo, che ebbe un marito e una figlia, che raggiunse la vecchiaia (infatti, in un papiro troviamo allusioni ad una pelle senile e a capelli bianchi), che era amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell’aspetto ma, soprattutto, che amò molto e che l’amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante.
Saffo fu stimata ed ammirata a Mitilene da molte sue concittadine, che erano solite riunirsi intorno a lei in un centro femminile del culto di Afrodite e delle Muse, una sorta di cenacolo intellettuale, una comunità tra il sacro e il profano definita "tiaso", costituita di sole fanciulle, aristocratiche e nubili, giovani donne che subivano il fascino della superiorità spirituale di Saffo, che da lei apprendevano la musica e la danza, e che l’abbandonavano solo quando poi prendevano marito e seguivano il loro destino, lasciando nell’animo della poetessa l’amarezza del distacco, che non tardava a riversare nei versi ricchi di pathos, intrisi di rimpianto per l’amicizia perduta.
Nei suoi frammenti ricorrono parecchi nomi di queste fanciulle, Attide, Girinna, Arignota, Gongila, Dice, Anattoria, che Saffo ammirava, stimava e celebrava, esaltandone le lodi e la bellezza, festeggiandone con gioia le nozze e lamentandone la partenza per terre lontane, con versi armoniosi e di rara bellezza, testimonianza preziosa del suo canto e dei suoi sentimenti. Di Gòngila esaltò soprattutto la bellezza, che era tale da offuscare quella della stessa dea:
O mia Gongila, ti prego
metti la tunica bianchissima
e vieni a me davanti: intorno a te
vola desiderio d’amore.
Così adorna, fai tremare chi guarda;
e io ne godo, perché la tua bellezza
rimprovera Afrodite.
Per Arignota, bella come la luna tra gli astri, che aveva sposato un uomo potente ed ormai abitava lontano, e che malinconicamente supplicava la poetessa di raggiungerla, Saffo si struggeva di nostalgia perché avrebbe voluto rivedere il suo bel volto e le movenze aggraziate.
Ad un’altra amica, esitante nel congedarsi, Saffo, pur afflitta dall’amarezza del distacco, ricordava le ore trascorse insieme in soave intimità e, frenando la commozione, e trattenendo il pianto, recava conforto:
"Vorrei essere morta, sai,davvero"
era così disfatta nel congedo
e parlava parlava:"Oh, Saffo,
è terribile quello che proviamo!
Non son io che lo voglio se ti lascio",
e io le rispondevo: addio,
su, vai, e ricordati di me,
perché lo sai come ti seguivamo:
e se no-allora io lo voglio
che ti ricordi, perché tu dimentichi-
com’era bello ,ciò che provavo,
quante corone di viole
ti posavi sul capo,insieme a me,
di rose, croco, salvia, di cerfoglio,
e quante s’intrecciavano ghirlande
per il tuo collo delicato
fatte dei fiori della primavera…
Oppure si lasciava prendere da una furiosa gelosia come nella celebre ode tradotta da Catullo e imitata da Foscolo, quella in cui descrive le sofferenze al cospetto della coppia felice, dell’uomo beato come un dio di fronte alla fanciulla che parla e sorride con dolcezza, mentre, impotente spettatrice, si tortura al loro cospetto.
Il colloquio dell’amica con l’uomo amato suscitava infatti in lei il sentimento violento e appassionato della gelosia, che la rapiva nella sua ardente visione e le impediva di udire qualsiasi altra cosa intorno a sé, espresso con tale potenza mai eguagliata da nessun altro poeta. Ecco, allora, l’ode considerata il capolavoro della poesia erotica, già famosa ai tempi di Saffo, che descrive proprio lo sconvolgimento dell’animo turbato dalla gelosia, esaltata già nel I secolo d. C da un poeta anonimo sul Sublime, rielaborata nella letteratura greca da Apollonio Rodio e da Teocrito e, in quella latina, da Lucrezio, Orazio e persino da Catullo, la cui versione è famosa quasi quanto l’originale:
Mi appare simile agli Dei
quel signore che siede innanzi a te
e ti ascolta,tu parli da vicino
con dolcezza,
e ridi, col tuo fascino, e così
il cuore nel mio petto ha sussultato,
ti ho gettato uno sguardo e tutt’a un tratto
non ho più voce,
no, la mia lingua è come spezzata,
all’improvviso un fuoco lieve è corso
sotto la pelle, i miei occhi non vedono,
le orecchie mi risuonano,
scorre un sudore e un tremito mi prende
tutta , e sono più pallida dell’erba,
è come se mancasse tanto poco
ad esser morta;
pure debbo farmi molta forza.
Il mondo poetico di Saffo può apparire chiuso ed impenetrabile
ma non è difficile comprendere la genesi dei versi sensibilissimi e delicati; il
suo animo femminile non poteva certo cantare secondo i motivi usuali della
lirica del suo tempo,le lotte politiche non l’attraevano, non sono donna di pertinaci
rancori, ma l’anima ho mite, armi e apparecchi militari non le interessavano,
chi
una schiera di cavalli,chi di fanti,chi uno stuolo di navi dice essere la cosa
più bella su la nera terra, io invece ciò che si ama, e tanto meno era portata per
l’esaltazione del simposio o delle espressioni dei piaceri effimeri collegati,
ad esempio, alle gioie del vino.
Portata per l’introspezione Saffo, coltivò soprattutto la
vena intimistica, ed è appunto con lei che nella poesia nasce l’interiorità,
favorita proprio dalla condizione femminile nel mondo greco, condizione che per
lei non era di chiusura giacché, nata in una famiglia aristocratica, aveva
rapporti di società, viaggiava, scambiava versi con Alceo, era anche moglie e
madre dalla vita normale, senza che ciò interferisse con la sua attività nel tiaso e col suo essere poetessa.
In un’epoca e in un ambiente in cui la donna godeva di una certa autonomia e
indipendenza, Saffo si
ripiegava in se stessa, si creava un suo mondo poetico,
in una cerchia diversa da quella dell’uomo, quasi in isolamento, cercando calore
per la sua anima soprattutto nel bello della natura: i fiori, gli usignoli, i
paesaggi notturni e le scene di primavera la deliziavano con uno stupore quasi
infantile, facendole apprezzare della bellezza soprattutto la leggiadria e la
grazia,
virtù squisitamente femminili.
Da un epigramma sepolcrale che scrisse per lei Tullio Laurèa, un amico di Cicerone, si apprende che gli antichi conoscevano una raccolta dei carmi di Saffo divisa in ben nove libri: dell’enorme produzione lirica sono stati tramandati scarsi brani, quasi tutti incompiuti, tuttavia sufficienti a rilevare nelle sue composizioni una tecnica unica, un sentimento che sgorga dal profondo dell’anima assetata di amore e di bellezza, che investe ed anima personaggi e cose.
Tecnica caratteristica è quella di trarre materia ed occasione del suo canto dalle scene di vita quotidiana per trasfigurarle in un mondo fantastico, in cui trionfano, in perfetta armonia ed equilibrio di colori ed immagini, la bellezza, l’amore e la luce.
Saffo, come tutti gli antichi, viveva la natura in un ‘aura di sacralità, sole, luna, mare, fiori, erano considerati entità sacre che pure le suggerivano immagini intime di raccoglimento e contemplazione della bellezza.
Ecco, allora, che in un giorno di primavera rievoca un tempio dell’isola di Creta visitato di persona o che solo le è stato descritto, ed al ricordo si sovrappone una visione smagliante di colore:
Da un epigramma sepolcrale che scrisse per lei Tullio Laurèa, un amico di Cicerone, si apprende che gli antichi conoscevano una raccolta dei carmi di Saffo divisa in ben nove libri: dell’enorme produzione lirica sono stati tramandati scarsi brani, quasi tutti incompiuti, tuttavia sufficienti a rilevare nelle sue composizioni una tecnica unica, un sentimento che sgorga dal profondo dell’anima assetata di amore e di bellezza, che investe ed anima personaggi e cose.
Tecnica caratteristica è quella di trarre materia ed occasione del suo canto dalle scene di vita quotidiana per trasfigurarle in un mondo fantastico, in cui trionfano, in perfetta armonia ed equilibrio di colori ed immagini, la bellezza, l’amore e la luce.
Saffo, come tutti gli antichi, viveva la natura in un ‘aura di sacralità, sole, luna, mare, fiori, erano considerati entità sacre che pure le suggerivano immagini intime di raccoglimento e contemplazione della bellezza.
Ecco, allora, che in un giorno di primavera rievoca un tempio dell’isola di Creta visitato di persona o che solo le è stato descritto, ed al ricordo si sovrappone una visione smagliante di colore:
Qui da noi: un tempio venerando,
un pomario di meli deliziosi,
altari dove bruciano profumi
d’incenso, un’acqua
freddissima che suona in mezzo ai rami
dei meli, e le ombre dei rosai
in tutto il posto, e dalle foglie scosse
trabocca sonno,
poi un florido prato, coi cavalli,
i fiori della primavera, aliti
dolcissimi che spirano…
dove Cipride coglie le corone
e delicatamente mesce un nettare
che si mescola nelle grandi feste,
in coppe d’oro…
E nella solitudine di una notte senza luna e senza stelle si riflette la
solitudine del suo animo:
E’ tramontata la luna, e le Pleiadi;
e la notte è a metà, ed il tempo trapassa,
ed io riposo in solitudine.
Anche l’idea della morte nella poesia di Saffo suggerisce armoniose immagini
di serenità e di bellezza, perché per Saffo il regno delle tenebre non può non
avere giardini coperti di fiori e bagnati di rugiada:
E mi prende un desiderio di morire,
e di vedere le rive dell’Acheronte
coperte di rugiada,fiorite di loto.
E grande sensibilità vibra anche nelle liriche dedicate alle amiche del
tiaso; la bellezza di un ‘amica assente, Attide, che spicca a Sardi fra le donne
lidie, suggerisce una visione di cielo notturno in cui brilla l’astro
lunare:
Forse in Sardi
spesso col pensiero qui ritorna
nel tempo che fu nostro: quando
eri per lei come una Dea rivelata,
tanto era felice del tuo canto.
Ora in Lidia è bella fra le donne
come quando il sole è tramontato
e la luna dalle dita di rose
vince tutte le stelle e la sua luce
modula sulle acque del mare
e i campi presi d’erba:
e la rugiada illumina la rosa,
posa sul gracile timo e il trifoglio
simile a fiore.
Solitaria vagando ,esita
A volte se pensa ad
Attide:
di desiderio l’anima trasale,
il cuore è aspro.
E d’improvviso: "Venite!"urla;
e questa voce non ignota
a noi per sillabe risuona
scorrendo sopra il mare.
Il tema predominante affrontato è sempre quello dell’amore, considerato da
Saffo il più potente dei sentimenti umani, il cui ruolo è determinante nella
vita e nell’educazione del tiaso, e colto in tutte le sue sfumature, sia quello
travolgente della passione sia quello del turbamento adolescenziale della
fanciulla che lo confida alla madre:
Mammina mia,
non posso più battere
il telaio,
stregata dall’amore
per un ragazzo
per opera della languida Afrodite.
Il tiaso diretto da Saffo era consacrato alle Muse e ad Afrodite, non stupisce
perciò che nei versi della poetessa compaia spesso la dea come presenza
benevola. Famosa fin dall’antichità è la composizione dedicata appunto ad
Afrodite, un inno d’invocazione, una preghiera tradizionale nella forma ma
innovativa nel contenuto, poco religiosa, giacché poetessa e dea sono poste in
diretto rapporto confidenziale, in dolce patto d’alleanza, fino ad annullare,
con complicità tipicamente femminile, la distanza tra umano e divino:
Afrodite immortale dal trono variopinto,
figlia di Zeus, insidiosa, ti supplico,
non distruggermi il cuore di disgusti,
Signora, e d’ansie,
ma vieni qui, come venisti ancora,
udendo la mia voce da lontano,
e uscivi dalla casa tutta d’oro
del Padre tuo:
prendevi il cocchio e leggiadri uccelli veloci
ti portavano sulla terra nera
fitte agitando le ali giù dal cielo
in mezzo all’aria,
ed erano già qui: e tu, o felice,
sorridendo dal tuo volto immortale,
mi chiedevi perché soffrissi ancora,
chiamavo ancora,
che cosa più di tutto questo cuore
folle desiderava: "chi vuoi ora
che convinca ad amarti? Saffo,dimmi,
chi ti fa male?
Se ora ti sfugge, presto ti cercherà,
se non vuole i tuoi doni ne farà,
se non ti ama presto ti amerà,
anche se non vorrai".
Vieni anche adesso, toglimi di pena.
Ciò che il cuore desidera che avvenga,
fa’ tu che avvenga. Sii proprio tu
la mia alleata.
Nei versi che seguono, frammenti intensi e suggestivi che pure esaltano il
sentimento amoroso, l’amore s’impone invece come forza, in profonda analisi
psicologica:
Eros mi ha squassato la mente
come il vento del monte
si scaglia sulle querce.
Nel canto di Saffo, come in tutta la letteratura greca, ritroviamo anche la
caratteristica dell’erotismo, spesso censurata dall’interpretazione
moderna, eppure l’eros, da Omero fino alla produzione ellenistica, fu elemento ben
presente in molteplici aspetti, eliminato dalla letteratura ufficiale solo con
l’avvento dell’ebraismo e soprattutto del Cristianesimo.
Per meglio comprendere il rapporto che i Greci avevano con l’eros è necessario ricordare che differente fu il loro concetto di morale, la nostra cultura confina l’eros nel tabù, invece i Greci lo legavano alla religiosità tradizionale e lo vivevano come rito della fecondità e celebrazione misterica; inoltre non separavano rigidamente l’eros eterosessuale da quello omosessuale, frequenti sono infatti nell’Iliade le allusioni ai legami omoerotici, come quelli tra Achille e Patroclo, e la stessa figura di Elena è rappresentata come intrisa di irresistibile sensualità.
Per quanto riguarda gli uomini sono i dialoghi di Platone ad attestare l’esistenza dell’erotismo maschile, ma anche in molte commedie di Aristofane, come la Lisistrata, si ritrova conferma della libertà dell’erotismo nella cultura greca, come pure è testimoniata la pratica dell’incesto nella riflessione della poesia tragica, dall’Edipo Re di Sofocle agli epigrammi e al romanzo dell’età ellenistica, che affrontavano l’eros in tutti i suoi aspetti.
Fu, poi, con la diffusione della cultura giudaico- cristiana, e soprattutto con quella del cristianesimo, che le tematiche dell’erotismo vennero emarginate e addirittura eliminate fino a compromettere la stessa corretta comprensione del patrimonio culturale greco.
E’ con Saffo che, per la prima volta nella storia della letteratura, abbiamo la rappresentazione dell’erotismo femminile (definito col tempo, con connotazione denigratoria, "saffico"), ma che è semplicemente espressione dell’eros vissuto legittimamente e in normalità nella cultura greca, ed è per questo che cantò con schiettezza l’amore, anche verso le sue amiche del tiaso, senza veli e ritrosie, proprio per la diversa moralità della cultura greca .
Saffo esercitò una notevole influenza sui suoi contemporanei, soprattutto su Alceo, Teognide, Bacchilide e Teocrito, e Strabone così si espresse su di lei: Saffo, un essere meraviglioso! Chè in tutto il passato, di cui si ha memoria, non appare che sia esistita mai una donna, la quale potesse gareggiare con lei nella poesia, nemmeno da lontano; la sua fama eguagliò quella di Omero eppure, proprio quando era più ammirata, cominciò ad essere infangata.
I suoi versi, in cui la rievocazione delle scene è sempre limpida e chiara, come sincero fu il sentimento ispiratore dei versi, l’amicizia che la legava alle sue compagne, furono spesso denigrati fin dall’antichità: basti pensare ad Orazio che definì Saffo dispregiativamente mascula.
Il processo denigratorio nei suoi confronti risale, però, ai commediografi attici, che l’accusarono di cattivi costumi, di bruttezza fisica e che arrivarono persino ad attribuirle un suicidio per amore dalla rupe di Leucade (come riprende Leopardi) perché invaghitasi senza speranza del bellissimo Faone; più onesti e sinceri gli entusiasmi di Platone, che chiamarono Saffo bella e saggia, di Teofrasto che ne rilevò la grazia, e di Plutarco che ne attestò l’ardore del cuore.
Grazia, soavità e passione: sono queste le caratteristiche della poesia di Saffo. Il suo amore fu squisitamente femminile, investì tutto ciò che la circondava, in delicatezza e levità, tanto che ancora oggi può essere considerata la più grande poetessa di tutti i tempi perché nessuna donna ha saputo cantare l’amore come lei, in purezza e sincerità.
Per meglio comprendere il rapporto che i Greci avevano con l’eros è necessario ricordare che differente fu il loro concetto di morale, la nostra cultura confina l’eros nel tabù, invece i Greci lo legavano alla religiosità tradizionale e lo vivevano come rito della fecondità e celebrazione misterica; inoltre non separavano rigidamente l’eros eterosessuale da quello omosessuale, frequenti sono infatti nell’Iliade le allusioni ai legami omoerotici, come quelli tra Achille e Patroclo, e la stessa figura di Elena è rappresentata come intrisa di irresistibile sensualità.
Per quanto riguarda gli uomini sono i dialoghi di Platone ad attestare l’esistenza dell’erotismo maschile, ma anche in molte commedie di Aristofane, come la Lisistrata, si ritrova conferma della libertà dell’erotismo nella cultura greca, come pure è testimoniata la pratica dell’incesto nella riflessione della poesia tragica, dall’Edipo Re di Sofocle agli epigrammi e al romanzo dell’età ellenistica, che affrontavano l’eros in tutti i suoi aspetti.
Fu, poi, con la diffusione della cultura giudaico- cristiana, e soprattutto con quella del cristianesimo, che le tematiche dell’erotismo vennero emarginate e addirittura eliminate fino a compromettere la stessa corretta comprensione del patrimonio culturale greco.
E’ con Saffo che, per la prima volta nella storia della letteratura, abbiamo la rappresentazione dell’erotismo femminile (definito col tempo, con connotazione denigratoria, "saffico"), ma che è semplicemente espressione dell’eros vissuto legittimamente e in normalità nella cultura greca, ed è per questo che cantò con schiettezza l’amore, anche verso le sue amiche del tiaso, senza veli e ritrosie, proprio per la diversa moralità della cultura greca .
Saffo esercitò una notevole influenza sui suoi contemporanei, soprattutto su Alceo, Teognide, Bacchilide e Teocrito, e Strabone così si espresse su di lei: Saffo, un essere meraviglioso! Chè in tutto il passato, di cui si ha memoria, non appare che sia esistita mai una donna, la quale potesse gareggiare con lei nella poesia, nemmeno da lontano; la sua fama eguagliò quella di Omero eppure, proprio quando era più ammirata, cominciò ad essere infangata.
I suoi versi, in cui la rievocazione delle scene è sempre limpida e chiara, come sincero fu il sentimento ispiratore dei versi, l’amicizia che la legava alle sue compagne, furono spesso denigrati fin dall’antichità: basti pensare ad Orazio che definì Saffo dispregiativamente mascula.
Il processo denigratorio nei suoi confronti risale, però, ai commediografi attici, che l’accusarono di cattivi costumi, di bruttezza fisica e che arrivarono persino ad attribuirle un suicidio per amore dalla rupe di Leucade (come riprende Leopardi) perché invaghitasi senza speranza del bellissimo Faone; più onesti e sinceri gli entusiasmi di Platone, che chiamarono Saffo bella e saggia, di Teofrasto che ne rilevò la grazia, e di Plutarco che ne attestò l’ardore del cuore.
Grazia, soavità e passione: sono queste le caratteristiche della poesia di Saffo. Il suo amore fu squisitamente femminile, investì tutto ciò che la circondava, in delicatezza e levità, tanto che ancora oggi può essere considerata la più grande poetessa di tutti i tempi perché nessuna donna ha saputo cantare l’amore come lei, in purezza e sincerità.
Francesca
Santucci
(GRC)
« ποικιλόθρον' ἀθανάτ' Αφρόδιτα,
παῖ Δίος δολόπλοκε, λίσσομαί σε,
μή μ' ἄσαισι μηδ' ὀνίαισι δάμνα,
πότνια, θῦμον,
ἀλλὰ τυίδ' ἔλθ', αἴ ποτα κἀτέρωτα
τὰς ἔμας αὔδας ἀίοισα πήλοι
ἔκλυες, πάτρος δὲ δόμον λίποισα
χρύσιον ἦλθες
ἄρμ' ὐπασδεύξαισα, κάλοι δέ σ' ἆγον
ὤκεες στροῦθοι περὶ γᾶς μελαίνας
πύπνα δίννεντες πτέρ' ἀπ' ὠράνωἴθε-
ρος διὰ μέσσω.
αἶψα δ' ἐξίκοντο, σὺ δ', ὦ μάκαιρα,
μειδιαίσαισ' ἀθανάτωι προσώπωι
ἤρε' ὄττι δηὖτε πέπονθα κὤττι
δηὖτε κάλημμι
κὤττι μοι μάλιστα θέλω γένεσθαι
μαινόλαι θύμωι. τίνα δηὖτε πείθω
ἄψ σ' ἄγην ἐς σὰν φιλότατα;τίς σ', ὦ
Ψάπφ', ἀδικήει;
καὶ γὰρ αἰ φεύγει, ταχέως διώξει,
αἰ δὲ δῶρα μὴ δέκετ',ἀλλὰ δώσει,
αἰ δὲ μὴ φίλει, ταχέως φιλήσει
κωὐκ ἐθέλοισα.
ἔλθε μοι καὶ νῦν, χαλέπαν δὲ λῦσον
ἐκ μερίμναν, ὄσσα δέ μοι τέλεσσαι
θῦμος ἰμέρρει, τέλεσον,σὺ δ' αὔτα
σύμμαχος ἔσσο. »
(IT) « Afrodite eterna, in variopinto soglio,
Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
Di noie e affanni.
E traggi or quà, se mai pietosa un giorno,
Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato,
Dal paterno venisti almo soggiorno,
Al cocchio aurato
Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli
Te guidavano intorno al fosco suolo
Battendo i vanni spesseggianti, snelli
Tra l'aria e il polo,
Ma giunser ratti: tu di riso ornata
Poi la faccia immortal, qual soffra assalto
Di guai mi chiedi, e perché te, beata,
Chiami io dall'alto.
Qual cosa io voglio più che fatta sia
Al forsennato mio core, qual caggìa
Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia
Saffo, ti oltraggia?
S'ei fugge, ben ti seguirà tra poco,
Doni farà, s'egli or ricusa i tuoi,
E s'ei non t'ama, il vedrai tosto in foco,
Se ancor nol vuoi.
Vienne pur ora, e sciogli a me la vita
D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando
Che a me compiuto sia compi, e m'aita
meco pugnando. »
« ποικιλόθρον' ἀθανάτ' Αφρόδιτα,
παῖ Δίος δολόπλοκε, λίσσομαί σε,
μή μ' ἄσαισι μηδ' ὀνίαισι δάμνα,
πότνια, θῦμον,
ἀλλὰ τυίδ' ἔλθ', αἴ ποτα κἀτέρωτα
τὰς ἔμας αὔδας ἀίοισα πήλοι
ἔκλυες, πάτρος δὲ δόμον λίποισα
χρύσιον ἦλθες
ἄρμ' ὐπασδεύξαισα, κάλοι δέ σ' ἆγον
ὤκεες στροῦθοι περὶ γᾶς μελαίνας
πύπνα δίννεντες πτέρ' ἀπ' ὠράνωἴθε-
ρος διὰ μέσσω.
αἶψα δ' ἐξίκοντο, σὺ δ', ὦ μάκαιρα,
μειδιαίσαισ' ἀθανάτωι προσώπωι
ἤρε' ὄττι δηὖτε πέπονθα κὤττι
δηὖτε κάλημμι
κὤττι μοι μάλιστα θέλω γένεσθαι
μαινόλαι θύμωι. τίνα δηὖτε πείθω
ἄψ σ' ἄγην ἐς σὰν φιλότατα;τίς σ', ὦ
Ψάπφ', ἀδικήει;
καὶ γὰρ αἰ φεύγει, ταχέως διώξει,
αἰ δὲ δῶρα μὴ δέκετ',ἀλλὰ δώσει,
αἰ δὲ μὴ φίλει, ταχέως φιλήσει
κωὐκ ἐθέλοισα.
ἔλθε μοι καὶ νῦν, χαλέπαν δὲ λῦσον
ἐκ μερίμναν, ὄσσα δέ μοι τέλεσσαι
θῦμος ἰμέρρει, τέλεσον,σὺ δ' αὔτα
σύμμαχος ἔσσο. »
(IT) « Afrodite eterna, in variopinto soglio,
Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
Di noie e affanni.
E traggi or quà, se mai pietosa un giorno,
Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato,
Dal paterno venisti almo soggiorno,
Al cocchio aurato
Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli
Te guidavano intorno al fosco suolo
Battendo i vanni spesseggianti, snelli
Tra l'aria e il polo,
Ma giunser ratti: tu di riso ornata
Poi la faccia immortal, qual soffra assalto
Di guai mi chiedi, e perché te, beata,
Chiami io dall'alto.
Qual cosa io voglio più che fatta sia
Al forsennato mio core, qual caggìa
Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia
Saffo, ti oltraggia?
S'ei fugge, ben ti seguirà tra poco,
Doni farà, s'egli or ricusa i tuoi,
E s'ei non t'ama, il vedrai tosto in foco,
Se ancor nol vuoi.
Vienne pur ora, e sciogli a me la vita
D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando
Che a me compiuto sia compi, e m'aita
meco pugnando. »
More or less 150 years after Homer's Iliad, Sappho lived on the island of Lesbos, west off the coast of what is present Turkey. Little remains today of her writings, which are said to have filled nine papyrus rolls in the great library at Alexandria some 500 years after her death. The surviving texts consist of a lamentably small and fragmented body of lyric poetry—among them poems of invocation, desire, spite, celebration, resignation and remembrance—that nevertheless enables us to hear the living voice of the poet Plato called the tenth Muse. This is a new translation of her surviving poetry.
«Ne vois-tu pas, dit Plutarque, quelle grâce possèdent les paroles de
Sappho pour enchanter de leurs sortilèges ceux qui les écoutent ?»
Sappho serait née aux environs de 650 avant J.-C., au plus tard en 630.
Admirable poète, «la dixième Muse» met au jour, dans le rythme et dans
la forme, l'intrication désespérée de la souffrance (morale) et de la
douleur (physique). Elle la révèle en la faisant chanter. Elle a inventé
le mal d'amour. Il faut penser que c'est une parole neuve, la parole
neuve et libre de Sappho. Écoutons la parole et la voix de Sappho, pour
autant que nous pouvons l'entendre, vivante malgré les mutilations du
temps. «Sappho, plus d'or que l'or», comme dit Démétrius. Dans ces
poèmes, merveilleux de simplicité apparente, il faut aller à petits pas,
il faut peindre à petits traits, s'interroger sur les mots les plus
simples, ne pas les transformer en (n'importe quelle) métaphore.
S'attacher au texte, dans un travail artisanal, pour qu'une clarté, de
temps à autre, nous foudroie. Ce livre réunit l'ensemble de la
collection des fragments de Sappho.
(GRC)
« Οἱ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαῖσ' ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν' ὄτ-
τω τις ἔραται. »
« Οἱ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαῖσ' ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν' ὄτ-
τω τις ἔραται. »
(IT)
« C'è chi dice sia un esercito di cavalieri, c'è chi dice sia un esercito di fanti, c'è chi dice sia una flotta di navi sulla nera terra la cosa più bella, io invece dico che è ciò che si ama » |
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(Frammento 16 Lobel-Page, incipit) |
(GRC)
« Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει
καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ᾽ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,
ὠς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽ ὤς με φώνη-
σ᾽ οὐδ᾽ ἒν ἔτ᾽ εἴκει,
ἀλλὰ κὰδ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρό-
μεισι δ᾽ ἄκουαι,
ψῦχρα δ᾽ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλίγω ’πιδεύης
φαίνομ’ ἔμ᾽ αὔτᾳ·
ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεί κ[...] »
(IT) « Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto
Ti siede, e vede il tuo bel riso, e sente
I dolci detti e l’amoroso canto! —
A me repente,
Con più tumulto il core urta nel petto:
More la voce, mentre ch’io ti miro,
Sulla mia lingua: nelle fauci stretto
Geme il sospiro.
Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:
Un indistinto tintinnío m’ingombra
Gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo
Torbida l'ombra.
E tutta molle d’un sudor di gelo,
E smorta in viso come erba che langue,
Tremo e fremo di brividi, ed anelo
Tacita, esangue
« Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει
καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ᾽ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,
ὠς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽ ὤς με φώνη-
σ᾽ οὐδ᾽ ἒν ἔτ᾽ εἴκει,
ἀλλὰ κὰδ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρό-
μεισι δ᾽ ἄκουαι,
ψῦχρα δ᾽ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλίγω ’πιδεύης
φαίνομ’ ἔμ᾽ αὔτᾳ·
ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεί κ[...] »
(IT) « Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto
Ti siede, e vede il tuo bel riso, e sente
I dolci detti e l’amoroso canto! —
A me repente,
Con più tumulto il core urta nel petto:
More la voce, mentre ch’io ti miro,
Sulla mia lingua: nelle fauci stretto
Geme il sospiro.
Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:
Un indistinto tintinnío m’ingombra
Gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo
Torbida l'ombra.
E tutta molle d’un sudor di gelo,
E smorta in viso come erba che langue,
Tremo e fremo di brividi, ed anelo
Tacita, esangue
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(GRC)
« Κύπρι καὶ] Νηρήιδες, ἀβλάβη[ν μοι
τὸν κασί]γνητον δ[ό]τε τύιδ᾽ ἴκεσθα[ι,
κὤσσα Ϝ]οι θύμω‹ι› κε θέλη γένεσθαι,
πάντα τε]λέσθην,
ὄσσα δὲ πρ]όσθ᾽ ἄμβροτε, πάντα λῦσα[ι,
ὠς φίλοισ]ι Ϝοῖσι χάραν γένεσθαι,
κὠνίαν ἔ]χθροισι· γένοιτο δ᾽ ἄμμι
πῆμά τι μ]ήδεις.
τὰν κασιγ]νήταν δὲ θέλοι πόησθαι
ἔμμορον] τίμας, [ὀν]ίαν δὲ λύγραν
ἐκλύοιτ᾽], ὄτοισι π[ά]ροιθ᾽ ἀχεύων
τὦμον ἐδά]μνα
. . . . . ].εισαΐω[ν] τὸ κέγχρω
. . . . . ]λ᾽ ἐπαγ[ορί]αι πολίταν
. . . . . ]λλωσ[. . .]νηκε δ᾽ αὖτ᾽ οὐ
. . . . . ]κρω[.]
. . . . . ]οναικ[. .]εο[ισ]ι
. . . . . ]. .[.]ν· σὺ [δ]ὲ Κύπ[ρι] σ[έμ]να
. . . . . . . . ]θεμ[έν]α κάκαν [. . . . .
. . . . . ]ι. »
« Κύπρι καὶ] Νηρήιδες, ἀβλάβη[ν μοι
τὸν κασί]γνητον δ[ό]τε τύιδ᾽ ἴκεσθα[ι,
κὤσσα Ϝ]οι θύμω‹ι› κε θέλη γένεσθαι,
πάντα τε]λέσθην,
ὄσσα δὲ πρ]όσθ᾽ ἄμβροτε, πάντα λῦσα[ι,
ὠς φίλοισ]ι Ϝοῖσι χάραν γένεσθαι,
κὠνίαν ἔ]χθροισι· γένοιτο δ᾽ ἄμμι
πῆμά τι μ]ήδεις.
τὰν κασιγ]νήταν δὲ θέλοι πόησθαι
ἔμμορον] τίμας, [ὀν]ίαν δὲ λύγραν
ἐκλύοιτ᾽], ὄτοισι π[ά]ροιθ᾽ ἀχεύων
τὦμον ἐδά]μνα
. . . . . ].εισαΐω[ν] τὸ κέγχρω
. . . . . ]λ᾽ ἐπαγ[ορί]αι πολίταν
. . . . . ]λλωσ[. . .]νηκε δ᾽ αὖτ᾽ οὐ
. . . . . ]κρω[.]
. . . . . ]οναικ[. .]εο[ισ]ι
. . . . . ]. .[.]ν· σὺ [δ]ὲ Κύπ[ρι] σ[έμ]να
. . . . . . . . ]θεμ[έν]α κάκαν [. . . . .
. . . . . ]ι. »
(IT)
« O Cipride e voi Nereidi, incolume datemi che mi torni il fratello e che quanto in cuor vuole che avvenga, tutto si avveri, e che cancelli tutto quanto sbagliò in precedenza, e così ci sia gioia in cuore per lui e dolore per i nemiciː e per noi nessuno sia danno. E sua sorella voglia render partecipe dell'onore, e dai dolorosi tormenti liberi quelli a cui prima, soffrendo, bloccava il cuore . . . . . ].ed udendo in cuore . . . . . ].le parole dei cittadini . . . . . ].[. . .] e nemmeno . . . . . ][. . .] . . . . . ].[. .]. . . . . . ]ː ma tu, veneranda Cipride, . . . . . . . . ] i mali posti [. . . . . . . . . . ]. » |
|
(trad. A. D'Andria) |
https://www.amazon.com/Complete-Poems-Sappho-Willis-Barnstone/dp/1590306139#reader_1590306139
(GRC)
« Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον, οἰ δὲ πέσδων,
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται.
πά]γχυ δ’ εὔμαρες σύνετον πόησαι
π]άντι τ[οῦ]τ’, ἀ γὰρ πολὺ περσ[κέθοισ]α
κάλ]λος [ἀνθ]ρώπων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα
τὸν] [πανάρ]ιστον
καλλ[ίποι]σ’ ἔβα ‘ς Τροίαν πλέο[ισα
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὔδε φίλων το[κ]ήων
πάμπαν] ἐμνάσθ[η], ἀ[λλὰ] παράγαγ’ αὔταν
Κύπρις ἔραι]σαν
[εὔθυς εὔκ]αμπτον γὰρ [ἔχοισα θῦμο]ν
[ἐν φρέσιν] κούφως τ[ὰ φίλ΄ ἠγν]όη[ε]ν̣
ἄ με] νῦν Ἀνακτορί[ας ὀνὲ]μναι-
σ’ οὐ ] παρεοίσας,
τᾶ]ς [κ]ε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα [κἀν ὄπλοισι]
πεσδομ]άχεντας. »
« Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον, οἰ δὲ πέσδων,
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται.
πά]γχυ δ’ εὔμαρες σύνετον πόησαι
π]άντι τ[οῦ]τ’, ἀ γὰρ πολὺ περσ[κέθοισ]α
κάλ]λος [ἀνθ]ρώπων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα
τὸν] [πανάρ]ιστον
καλλ[ίποι]σ’ ἔβα ‘ς Τροίαν πλέο[ισα
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὔδε φίλων το[κ]ήων
πάμπαν] ἐμνάσθ[η], ἀ[λλὰ] παράγαγ’ αὔταν
Κύπρις ἔραι]σαν
[εὔθυς εὔκ]αμπτον γὰρ [ἔχοισα θῦμο]ν
[ἐν φρέσιν] κούφως τ[ὰ φίλ΄ ἠγν]όη[ε]ν̣
ἄ με] νῦν Ἀνακτορί[ας ὀνὲ]μναι-
σ’ οὐ ] παρεοίσας,
τᾶ]ς [κ]ε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα [κἀν ὄπλοισι]
πεσδομ]άχεντας. »
(IT)
« Alcuni di cavalieri un esercito, altri di fanti, altri di navi dicono che sulla nera terra sia la cosa più bella, mentre io ciò che uno ama. Tanto facile è far capire questo a tutti, perché colei che di molto superava gli uomini in bellezza, Elena, il marito davvero eccellente lo abbandonò e se ne andò a Troia navigando, e né della figlia, nè dei cari genitori si ricordò più, ma tutta la sconvolse Cipride innamorandola. E ora ella, che ha mente inflessibile, in mente mi ha fatto venire la cara Anattoria, che non mi è vicina. Potessi vederne il seducente passo e il lucente splendor del volto più che i carri dei Lidi e, in armi, i fanti. » |
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(trad. A. D'Andria) |
(GRC)
« Κύπρο[ – ^ ^ – ^ ^ – ^ ^ – ^ ]ας.
κᾶρυξ ἦλθε θέ[ων ^ ^ –]ελε[– ^]θεις
Ἴδαος τάδε κα[ῖνα] φ[όρ]εις τάχυς ἄγγελος·
«< . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ἰλίω>
τᾶς τ᾽ ἄλλας Ἀσίας τ[ό]δε γᾶν κλέος ἄφθιτον·
Ἔκτωρ καὶ συνέταιρ[ο]ι ἄγοισ᾽ ἐλικώπιδα
Θήβας ἐξ ἰέρας Πλακίας τ᾽ ἀπ᾽ ἀ[ι]ν<ν>άω
ἄβραν Ἀνδρομάχαν ἐνὶ ναῦσιν ἐπ᾽ ἄλμυρον
πόντον· πόλλα δ᾽ [ἐλί]γματα χρύσια κἄμματα
πορφύρ[α] καταΰτ[με]να, ποίκιλ᾽ ἀθρήματα,
ἀργύρα τ᾽ ἀνάριθμα ποτήρια κἀλέφαις.»
ὢς εἶπ᾽· ὀτραλέως δ᾽ ἀνόρουσε πάτ[η]ρ φίλος·
φάμα δ᾽ ἦλθε κατὰ πτόλιν εὐρύχορον φίλοις·
αὔτικ᾽ Ἰλίαδαι σατίναι[ς] ὐπ᾽ ἐυτρόχοις
ἆγον αἰμιόνοις· ἐπ[έ]βαινε δὲ παῖς ὄχλος
γυναίκων τ᾽ ἄμα παρθενίκα[ν] τ᾽ ἀτ[αλ]οσφύρων·
χῶρις δ᾽ αὖ Περάμοιο θύγ[α]τρες [ἐπήισαν,
ἴππ[οις] δ᾽ ἄνδρες ὔπαγον ὐπ᾽ ἄρ[ματα κάμπυλα]
π[άντ]ες ἠίθεοι· μεγάλω[σ]τι δ᾽ [^ – ^ –]
δ[ίφροις] ἀνίοχοι φ[ ^ ^ – ^ ^ – ^ –
π[^ ^ –]ξαλο[ν. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ἴ]κελοι θέοι[ς
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ] ἄγνον ἀόλ[λεες
ὄρμαται [^ ^ – ^ ^ –]νον ἐς Ἴλιον,
αὖλος δ᾽ ἀδυ[μ]έλης [^ ^ –] τ᾽ ὀνεμ<ε>ί<χ>νυ[το
καὶ ψ[ό]φο[ς κ]ροτάλ[ων λιγέ]ως δ᾽ ἄρα πάρ[θενοι
ἄειδον μέλος ἄγν[ον, ἴκα]νε δ᾽ ἐς αἴθ[ερα
ἄχω θεσπεσία, γέλ[ος – ^ ^ – ^ ^,
πάνται δ᾽ ἦς κὰτ ὄδο[ις ^ ^ – ^ ^ – ^ ^]
κράτηρες φίαλαί τ᾽ ο[. . .]υεδε[. .]λ[.]εακ[. .
μύρρα καὶ κασία λίβανός τ᾽ ὀνεμείχνυτο.
γύναικες δ᾽ ἐλέλυσδον ὄσαι προγενέστεραι,
πάντες δ᾽ ἄνδρες ἐπήρατον ἴαχον ὄρθιον
Πάον᾽ ὀνκαλέοντες ἐκάβολον εὐλύραν,
ὔμνην δ᾽ Ἔκτορα κ᾽ Ανδρομάχαν θεοεικέλοις. »
« Κύπρο[ – ^ ^ – ^ ^ – ^ ^ – ^ ]ας.
κᾶρυξ ἦλθε θέ[ων ^ ^ –]ελε[– ^]θεις
Ἴδαος τάδε κα[ῖνα] φ[όρ]εις τάχυς ἄγγελος·
«< . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ἰλίω>
τᾶς τ᾽ ἄλλας Ἀσίας τ[ό]δε γᾶν κλέος ἄφθιτον·
Ἔκτωρ καὶ συνέταιρ[ο]ι ἄγοισ᾽ ἐλικώπιδα
Θήβας ἐξ ἰέρας Πλακίας τ᾽ ἀπ᾽ ἀ[ι]ν<ν>άω
ἄβραν Ἀνδρομάχαν ἐνὶ ναῦσιν ἐπ᾽ ἄλμυρον
πόντον· πόλλα δ᾽ [ἐλί]γματα χρύσια κἄμματα
πορφύρ[α] καταΰτ[με]να, ποίκιλ᾽ ἀθρήματα,
ἀργύρα τ᾽ ἀνάριθμα ποτήρια κἀλέφαις.»
ὢς εἶπ᾽· ὀτραλέως δ᾽ ἀνόρουσε πάτ[η]ρ φίλος·
φάμα δ᾽ ἦλθε κατὰ πτόλιν εὐρύχορον φίλοις·
αὔτικ᾽ Ἰλίαδαι σατίναι[ς] ὐπ᾽ ἐυτρόχοις
ἆγον αἰμιόνοις· ἐπ[έ]βαινε δὲ παῖς ὄχλος
γυναίκων τ᾽ ἄμα παρθενίκα[ν] τ᾽ ἀτ[αλ]οσφύρων·
χῶρις δ᾽ αὖ Περάμοιο θύγ[α]τρες [ἐπήισαν,
ἴππ[οις] δ᾽ ἄνδρες ὔπαγον ὐπ᾽ ἄρ[ματα κάμπυλα]
π[άντ]ες ἠίθεοι· μεγάλω[σ]τι δ᾽ [^ – ^ –]
δ[ίφροις] ἀνίοχοι φ[ ^ ^ – ^ ^ – ^ –
π[^ ^ –]ξαλο[ν. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ἴ]κελοι θέοι[ς
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ] ἄγνον ἀόλ[λεες
ὄρμαται [^ ^ – ^ ^ –]νον ἐς Ἴλιον,
αὖλος δ᾽ ἀδυ[μ]έλης [^ ^ –] τ᾽ ὀνεμ<ε>ί<χ>νυ[το
καὶ ψ[ό]φο[ς κ]ροτάλ[ων λιγέ]ως δ᾽ ἄρα πάρ[θενοι
ἄειδον μέλος ἄγν[ον, ἴκα]νε δ᾽ ἐς αἴθ[ερα
ἄχω θεσπεσία, γέλ[ος – ^ ^ – ^ ^,
πάνται δ᾽ ἦς κὰτ ὄδο[ις ^ ^ – ^ ^ – ^ ^]
κράτηρες φίαλαί τ᾽ ο[. . .]υεδε[. .]λ[.]εακ[. .
μύρρα καὶ κασία λίβανός τ᾽ ὀνεμείχνυτο.
γύναικες δ᾽ ἐλέλυσδον ὄσαι προγενέστεραι,
πάντες δ᾽ ἄνδρες ἐπήρατον ἴαχον ὄρθιον
Πάον᾽ ὀνκαλέοντες ἐκάβολον εὐλύραν,
ὔμνην δ᾽ Ἔκτορα κ᾽ Ανδρομάχαν θεοεικέλοις. »
(IT)
« Da Cipro [...] venne un araldo veloce correndo [...], Ideo, e apparve, rapido nunzio (lacuna) e dal resto dell'Asia quest'inconsumabile gloriaː "Ettore e i suoi compagni scortano la occhi splendenti, da Tebe e dalla sacra Plakia dall'acque perenni, la dolce Andromaca, con le navi, sul salso mareː e molti bracciali d'oro, e vesti multicolori e belle porpore e troni e fregi multiformi e innumerevoli coppe d'argento e tanti avoriǃ" Così diceva ed il padre caro balzò ratto in piedi e si spargeva la fama nell'ampia città, tra gli amici. Subito le donne d'Ilio ai carri preziosi, ampie ruote, aggiogavan le mule e saliva tutta la folla di donne e insieme di vergini dall'agili caviglieː e, un po' discoste, le figlie di Priamo pure partivan; ma gli uomini aggiogavano cavalli ai lor carri e tutti quelli celibi; e grandemente [...], [...] e gli aurighi [...], [...] conducevano [...], [...] [...] e simili ai numi [...]sacri profumi [...] ad Ilio e il flauto dolcesonante si mescolava ai sonagli [...] e a quel punto le vergini [...] [...] [...] [...] e mirra e cassia ed incenso esalavan profumo; e, non appena le anziane alzarono il grido rituale tutti gli uomini intonaron il retto grido rituale, il peana, invocando l'Arciere dalla bella lira, e inneggiando a Ettore e Andromaca, simili a numi. » |
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(Trad. A. D'Andria) |
(GRC)
« οἶον τὸ γλυχὺμαλον ἐρεύθεται ἄχρῳ ἐπ’ ὔσδῳ
ἄχρον ἐπ’ ἄχροτάτῳ λελάθοντο δὲ μαλοδρόπηες·
οὐ μὰν ἐχλελάθοντ’, ἀλλ’ οὐχ ἐδύναντ’ ἐπὶχεσθαι. »
« οἶον τὸ γλυχὺμαλον ἐρεύθεται ἄχρῳ ἐπ’ ὔσδῳ
ἄχρον ἐπ’ ἄχροτάτῳ λελάθοντο δὲ μαλοδρόπηες·
οὐ μὰν ἐχλελάθοντ’, ἀλλ’ οὐχ ἐδύναντ’ ἐπὶχεσθαι. »
(IT)
« Quale dolce mela che su alto ramo rosseggia, alta sul più alto; la dimenticarono i coglitori; no, non fu dimenticata: invano tentarono raggiungerla. » |
|
(Traduzione di Salvatore Quasimodo) |
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