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venerdì 9 dicembre 2016

Emilio Covelli (Trani, 5 agosto 1846 – Nocera Inferiore, 15 agosto 1915) Anarchico

Emilio Covelli

Emilio Covelli (Trani, 5 agosto 1846 – Nocera Inferiore, 15 agosto 1915) è stato un anarchico italiano.

Biografia

Fu insieme a Carlo Cafiero (di Barletta) uno dei più importanti esponenti italiani del movimento anarchico del Meridione, aderendo alla Lega Internazionale dei Lavoratori.
Per un periodo visse in esilio a Parigi da dove tornò in Italia a causa delle sue condizioni di salute; morì nel manicomio di Nocera.
Membro della nobile famiglia dei Covelli di Trani, nella sua vita ha seguito l'evolversi del movimento anarchico rendendosi parte attiva nella diffusione in Italia dei testi originali in lingua tedesca (Marx, Engels, ecc.). Scrisse anche due opere: L'economia politica e la scienza nel 1874 ed Economia e Socialismo pubblicato nel 1908.
Una targa commemorativa lo ricorda sulla facciata del Palazzo Covelli in Trani. Essa riporta una sua frase: "Non mi vendo né ai governi né ai partiti. Ho bramato miserie persecuzioni calunnie. Ho rifiutato tutto. Resto ciò che sono. Così parlano gli anarchici."

Emilio Covelli nacque a Trani, in provincia di Bari, il 5 agosto del 1846 da Francesco Paolo e da Carolina Soria, di agiate condizioni. Seguì gli studi secondari nel seminario di Molfetta, istituto ecclesiastico aperto anche ai laici e scuola fra le più rinomate del Mezzogiorno. Ebbe come compagno di studi il coetaneo Carlo Cafiero, di Barletta, che gli sarà più tardi anche compagno d'idee e di sventura.

Da un profilo biografico scritto dal Cafiero nel 1882 si ricava questo ritratto fisico e morale del Covelli: " al seminario, ove fummo educati insieme, egli riportò sempre il primo premio... Non solo non lo ricordo mai punito, ma mi sembra che egli imponesse una specie di rispetto e di riverenza ai superiori stessi. Parco nel parlare e nel gestire, egli possedeva la bella moderazione di un carattere mite, dolce, uguale, costente... La sua nera figura, angolosa e rannuvolata, il suo sguardo sospettoso e scrutatore, e persino il mutismo delle sue labbra, son tutte cose che incutono soggezione". Basso di statura, di carnagione scura, miope così lo descrive una scheda della polizia - fin da giovane soffrì di disturbi nervosi.
 Dopo essersi laureato in giurisprudenza all'università di Napoli, perfezionò i suoi studi a Heidelberg e a Berlino, frequentando nelal capitale tedesca le lezioni di Eugen Duhring, teorico di un socialismo non materialista e non classista e quindi in polemica con Marx e Engels. Fu proprio nel pubblicare sulla Rivista partenopea (1871-72) il suo primo scritto - una recensione dell'opera del During Storia critica dell'economia politica e del socialismo - che il Covelli prese ad esaminare, primo in Italia, Il Capitale di Marx e a discorerne positivamente. Nel 1874 egli tornò a trattare questi temi in un saggio su L'economia politica e la scienza che ha un suo posto nella prima letteratura del socialismo italiano. Sicolgono in questi scritti del Covelli alcuni spunti polemici contro il socialismo dottrinario e a favore del movimento sociale della classe lavoratrice e delle sue esperienze concrete (ad esempio, le organizzazioni di resistenza).

Spunti che si ritrovano sintetizzati in questo schizzo dello sviluppo storico del movimento: "Da prima il programma del proletariato era naturalmente utopistico; il presente è male, dunque tabula rasa; vogliamo invece il bene; facciamo quindi l'avvenire come noi stessi vogliamo. La realtà attuale si offriva come qualcosa di assolutamente intollerabile; non s'indagava quello che poteva naturalmente uscirne. Non si avevano idee di leggi sociali; e le istituzioni sociali sembravano puro risultato dell'arbitrio. Vennero le utopie di Saint-Simon, Fourier, Owen, ecc. Ma esse non si attuarono; onde l'operaio seguì naturalmente la via di lottare come poteva col presente per ricavarne il meno male possibile. Questa lotta nella vita pratica dette coll'andar del tempo de' risultati che influirono sulle concezioni de' pensatori e sull'indirizzo generale del socialismo, che venne quindi mutando d'aspetto".
Con questa preparazione di ricerche e di studi, a metà degli anni a metà degli anni Settanta, il Covelli si accostò all'Internazionale che era allora l'associazione in cui si organizzava il nascente movimento socialista in Italia, con prevalente indirizzo anarchico. Visitò a Locarno il vecchio amico Cafiero e s'iscrisse verso il 1875 alla sezione napoletana. Inseguito, mentre i maggiori esponenti dell'Internazionale come Cafiero e Malatesta, protagonisti del moto insurrezionale del Matese (1877) si trovavano in carcere, il Covelli fondò e diresse a Napoli il giornale L'Anarchia che fu la voce del Movimento in quel difficile momento. Per la sua attività subì in questo periodo, sempre a Napoli, il primo arresto.


Successivamente, impegnatosi come membro della commissione di corrispondenza della Federazione italiana, venne arrestato e processato davanti al tribunale di Genova che lo assolse l'11 luglio 1879 insieme con altri coimputati fra i quali l'internazionalista fiorentino Gaetano Grassi. Appena liberato si rifugiò in Francia anche per sfuggire al processo in Corte d'appello che il 16 marzo 1880 lo condannò in contumacia a dieci mesi di carcere e dieci mesi di sorveglianza. Dopo aver incontrato a Parigi Carlo Cafiero, si portò in Inghilterra e da Londra il 17 novembre 1880 diffuse uno stampato dal titolo Redattori della Lotta! (La Lotta era il titolo di un giornale che avrebbe dovuto pubblicarsi a Bologna) nel quale manifestava violentemente il proprio dissenso dall'indirizzo evoluzionista enunciato da Costa nel programma della Rivista internazionale del socialismo: "Io credo che la rivoluzione non è l'organizzazione, in modo più o meno pacifico e legale, di un esercito che, all'ordine di uno o più capi, deve poi marciare all'assalto. In nessun paese la classe operaia è organizzata come in Inghilterra e non è meno preparata alla rivoluzione. La rivoluzione, parmi, è l'azione continua di eccitamento e di perpetrazione di ogni specie di reati contro l'ordine pubblico".


Queste posizioni sono sistematicamente sostenute sulla rivista anarchica I Malfattori che il Covelli pubblicò a Ginevra nel corso del 1881, contribuendo al passaggio dell'anarchismo a un indirizzo estremista, illegalista e per certi aspetti individualista. Il Covelli teorizzò anche il ricupero, anzi la funzione rivoluzionaria, degli emarginati sociali e degli spostati.
 In questa cornice ideologica va anche inquadrato l'atteggiamento del Covelli nei confronti della "svolta" di Andrea Costa. Se alla vigilia della lettera "agli amici di Romagna" del luglio 1879, il Covelli, intervenendo su La Plebe, aveva assunto una posizione abbastanza aperta, e se, alla vigilia delle elezioni politiche del novembre 1882, aveva tenuto un contegno distaccato ma non ostile ai mezzi legali (egli stesso, nuovamente detenuto a Genova, era portato in quella occasione candidato-protesta nel collegio di Monselice), attaccava in seguito e pubblicamente il neodeputato Costa (meeting di Parigi del 30 ottobre 1883) qualificandolo come "un rinnegato che ha accettato di essere deputato e triunviro della democrazia, mentre io ho rifiutato tutto, ed ho bramato la miseria, le persecuzioni, le calunnie per restare ciò che sono" (Protesta in Proximus tuus [Torino], 1º dicembre 1883).


Già in questo periodo però si hanno i primi segni di un'alterazione mentale che condusse il C. in manicomio: una prima volta a Como nel 1885. Dimesso dopo sette mesi riprese a viaggiare e verso la fine degli anni Ottanta lo troviamo a Corfù e a Costantinopoli. Si interessa alla sorte del suo amico Cafiero, anch'egli ricoverato in manicomio. All'inizio degli anni Novanta è nuovamente in Svizzera.


Qui entra in una pubblica discussione politica con il gruppo "I ribelli futuri" di Neuchâtel, a proposito di due sue proposte: una relativa alla "socializzazione della terra" intesa come "rivendicazione parziale" da portare avanti indipendentemente dai fini ultimi e generali che restano il comunismo e l'anarchia; l'altra per una maggiore attenzione ai problemi della società italiana "proponendo qualche provvedimento d'immediata attuazione, qualche mezzo eroico che valga a far cessare lo spettacolo vergognoso de' poveri italiani divenuti i pezzenti del mondo (L'Italiano all'estero, organo degli operai italiani in Svizzera, Losanna, 13 giugno 1891).


In tal modo anche il Covelli, come Cafiero, pur mantenendosi intransigente sulla questioni tattiche ("Né io vi propongo per ciò di entrare ne' Consigli comunali e ne' Parlamenti. Lo faccia chi vuole"), approdava ad un programma transitorio, modificando alquanto la primitiva rigidezza.


Dal 1892 al 1894 il Covelli rimase internato nel manicomio di Aversa e fra il 1904 ed il 1908, ad intervalli, in quello di Nocera Inferiore. Nel 1908, grazie ad aiuti raccolti con una sottoscrizione, poté tornare in Svizzera per trovare i vecchi compagni ma, fermato a Losanna, venne espulso una prima volta nel maggio 1908 per mendicità e una seconda volta nel gennaio 1909 per aver contravvenuto al decreto di espulsione. Dal 1909 al 1913 venne ricoverato per "monomania acuta" nel manicomio di Como, dal quale venne trasferito a quello di Nocera Inferiore (Salerno), dove morì il 2 novembre 1915.


Una lapide e un busto lo ricordano a Trani.




Pier Carlo Masini


[A cura di Ario Libert]

Emilio Covelli
«La rivoluzione è l’azione continua di eccitamento e di perpetrazione di ogni specie di reati contro l’ordine pubblico»
(Ai redattori della “Lotta”)

Se la rivoluzione si potesse fare solamente con i programmi, con i discorsi, e con quanto altro si va scribacchiando o cianciando da tanto tempo, è da un pezzetto che sarebbe fatta. Invece «le nazioni non si addottrinano e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e giornali, ma progrediscono attuando una serie di fatti terribili e sanguinosi» (Carlo Pisacane, La Rivoluzione).
Per fare la rivoluzione dunque ci vogliono soprattutto uomini d’azione, e gli uomini che agirono rivoluzionariamente furono sempre qualificati per malfattori, cominciando da Gesù crocifisso fra due ladri e finendo ai nostri martiri di Russia che il principe Igniatieff chiama un pugno di banditi.
Se noi non ci contenteremo solamente di pensare e di parlare sulla rivoluzione, se brameremo eziandio farla, non potremo non essere dei malfattori e non fare causa comune con tutti i malfattori.
Per i nostri padroni dal ventre pieno e dal bastone del comando, l’ordine esistente è legge, giustizia e morale. Ma quest’ordine è per noi la più crudele oppressione ed il più spietato sfruttamento; noi non possiamo rispettarlo quest’ordine, dobbiamo combatterlo, contravvenire e rivoltarci ad esso, studiare ed attuare tutti i modi per abbatterlo e distruggerlo per sempre; dunque dobbiamo essere malfattori.
Vi è una minoranza che con la violenza ha perpetrato il più terribile e crudele misfatto, con la violenza le ha dato la sanzione legale e con la violenza ne perpetra ogni giorno il suo rinnovamento in progressione infinitamente moltiplicata. Questa minoranza che ha spogliato la maggioranza di ogni bene e col coltello della fame alla gola continua a sfruttarla e ad opprimerla, ricattandone la sua forza di lavoro per un tozzo di pane tanto più meschino tanto più grande è la fame. Tale è la legge che s’è fatta; concorrere al suo sostegno ed al suo sviluppo chiamano fare il bene; noi non possiamo e non vogliamo sottostarvi; noi vogliamo distruggere questa legge di sangue, dunque dobbiamo fare il male per essa e contro di essa; dobbiamo essere malfattori.
Contrastati dalla nequizia sociale noi ci demmo ad investigare le piaghe del popolo, a formularne le sue aspirazioni, a predicargli la buona novella; l’autorità ci perseguitò, ci imprigionò e ci qualificò per malfattori; siamo dunque malfattori; la legge ce lo impone.
I seguaci di Catilina furono malfattori. I seguaci di Spartaco furono malfattori. I seguaci di Gesù furono malfattori. I contadini rivoltati della Germania furono malfattori. I conquistatori della Bastiglia e gli incendiari dei castelli furono malfattori. I ribelli delle sette giornate di Palermo furono malfattori. I ribelli della Comune furono malfattori. I ribelli di Cartagena e di Alcoy furono malfattori. I nostri fratelli di Russia sono malfattori. E noi, per la fede che ci anima, per il cuore che ci consiglia, per la legge che ci colpisce, noi siamo e dobbiamo essere malfattori.
Chi sono coloro che ci chiamano malfattori?
Noi ne presenteremo due solamente, ma due tipi. L’uno ha rinnegato il sangue dei suoi fratelli che caddero tutti per la libertà, la fede di sua madre che l’Italia chiamò: madre dei Gracchi. L’altro ha tradito la bandiera sotto la quale combatté accanto al nostro precursore Carlo Pisacane.
Ecco gli uomini della legge e del bene. Possiamo noi non essere gli uomini dell’illegalità e del male? Dobbiamo essere malfattori.
A voi, giovani d’Italia, affrettatevi a decidere. Volete rimanere con un passato di menzogne e d’iniquità già putrido e decrepito, o volete essere uomini del vostro tempo con un ideale di verità e di giustizia, di libertà e di eguaglianza? — Decidetevi. «Nessuno può servire due padroni».
Se non volete rimanere con il passato, ma progredire verso l’avvenire; se non volete servire la reazione ma la rivoluzione, rivoltatevi alla legge di oppressione d’oggi ed unitevi a noi per lavorare all’avvenimento della legge naturale di eguaglianza.
Siate malfattori!
[I Malfattori, n. 3, 4 giugno 1881]

 English: Covelli's Palace (Trani)
Italiano: Palazzo Covelli (Trani)

Anarchici, garofani rossi in onore di Emilio Covelli


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