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mercoledì 25 novembre 2020

Andali, province of Catanzaro in the Calabria region of southern Italy.

 In principio il nome ufficiale del borgo era Villa Aragona, il nome attuale potrebbe derivare dal dialetto riferendosi al termine anda, ossia terreno incolto. Secondo un'altra ipotesi potrebbe derivare dalla lingua arbëreshe usata dai suoi abitanti. Il comune di Andali fa parte, infatti, delle comunità minoritarie arbëreshë in Italia, inoltre è inserito nella Comunità Montana della Presila Catanzarese, oggi in liquidazione, e nella Regione Agraria n. 8 delle Colline Litoranee di Catanzaro. Ormai solo pochi abitanti preservano la lingua arbëreshë, dopo aver perso la cultura ed il rito bizantino-greco. Ha subito una forte emigrazione che ha ridotto la popolazione ad un terzo rispetto a quella del 1961. 

Andali (Arbëreshë Albanian: Andalli) is a comune and town is the province of Catanzaro in the Calabria region of southern Italy.  







Santissima Madonna del Rosario, Patrona di Andali.
 
Monumento ai caduti in guerra























 

 
La SS.ma Annunziata di Andali 
 
Sigillo dell’università di Andali.
 

 


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RtiCalabria 
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Villa Aragona detto volgarmente Andali. Un casale “albanese” tra il Cinquecento ed il Seicento


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Andali e Belcastro (CZ).

L’origine dell’abitato di Villa Aragona è da situarsi tra il 1542 ed il 1574, anni in cui furono fondati, o ripopolati, anche i vicini casali di Marcedusa e di Troiani. Allora il feudo di Belcastro apparteneva agli Aragona, duchi di Montalto, (Ferrante (1542), Pietro (1549-1552) e Antonio (1553-1574). Secondo il vescovo di Belcastro Giovanni Emblaviti, Villa Aragona fu abitata da Albanesi: “Ex Epiro fugati à Turcis” che non contraggono matrimoni con gli Italiani e “sunt veluti una Domus”. Nel Conto del regio tesoriero di Calabria Ultra Turino Ravaschiero relativo all’anno 1564-65, nell’ “Introito deli carlini quindeci et gr.i uno a foco” non troviamo elencati i fuochi del casale di Andali.

Anche nelle tassazioni precedenti non si accenna al casale. Si presume quindi che il casale sia stato fondato dal duca di Montalto Antonio d’Aragona, feudatario di Belcastro dal 1553 al 1574 e che spetta a lui il nome che all’origine fu dato al casale, sorto nei pressi di un antico abitato del quale esistevano ancora i ruderi.

 

Primi documenti

Le prime notizie sul casale le troviamo nei conti dei regi tesorieri di Calabria Ultra. Nelle imposizioni per il pagamento dei caporali e guardiani delle torri di Calabria Ultra nel “Conto del R.o Thesoriero di Cal.a Ultra dell’anno 1579-1580” è citata “Vill’Aragonie di la Cerda”. Nell’ “Introyto per li fochi Albanesi che pagano per mita la dett’impositione”, il casale è tassato per 12 fuochi. Nel documento sono annotate le terze, ognuna delle quali dell’importo di 2 tari e grana due e mezzo, che l’università è costretta a pagare dall’ottobre 1579 al settembre 1580. Sono incaricati del versamento Giovanni Creva, o Cresta, e Marco San Marco.

Il vescovo di Belcastro Orazio Schipano nella sua relazione del 1592, riprendendo quanto scritto dal suo procuratore, il canonico Galieno Pigneri (“quodam pago vulgo dicto di Alvanisi”), affermava che nella sua diocesi, oltre alla città di Belcastro vi era un solo “casale d’Albanesi”. Cinque anni dopo, al tempo del vescovo Alessandro Papatodaro, vi era “quodam pago dicto Aragona” e “in castro Aragonae Archipraesbiter illius castri est Parochus curam habens animarum”. All’inizio del Seicento gli Albanesi che abitano nella Villa Aragona sono circa duecento, ai quali un arciprete, che ha anche la funzione di parroco, amministra i sacramenti. Secondo quanto scrive il vescovo, vivono “more latino ipsi namq. Albanenses latino more vivunt”. Sempre in questi anni, come risulta dal “Cedulario deli fochi or.rii dela Prov.a de Calabria Ultra” del gennaio 1604, il casale di “Agnone seu Andali” è tassato per 39 fuochi. Sempre dai conti dei regi tesorieri sappiamo che il 25 gennaio 1608, Diomede Maczuccari versava per Villa Aragonica ducati 8 tari 4 e grana 19. Il casale sarà tassato per gli stessi fuochi anche nella numerazione del 1669.

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Andali (CZ), topografia della località.

La perdita del rito greco

All’inizio del Seicento il casale è abitato da circa quaranta fuochi, e a causa della povertà degli abitanti, vi è un solo sacerdote per celebrare la messa ed amministrare i sacramenti.

Sembra tuttavia che nonostante i vescovi di Belcastro continuino ad affermare che gli abitanti seguono il rito latino, in verità il rito greco è ancora presente. Il vescovo Antonio Ricciulli (1626-1629) così si esprime: “In pago Andali nuncupato per Parrochum perpetuum graeco ritu ministrantem. In pago vero S.ti Angeli per parrochum similiter perpetuum Latino ritu servientem.”. I vescovi di Belcastro, quasi sempre lontani dalla diocesi, nelle loro relazioni seicentesche, cercheranno di non evidenziare e di nascondere la presenza di elementi del rito greco nel casale.

Il vescovo Giovanni Emblaviti nella sua relazione del 28 luglio 1692, ci informa sulla sottrazione del messale e del breviario pertinenti al rito greco (forse un codice evangelario miniato), che erano stati portati via dal casale e si trovavano ora nella Biblioteca Barberina di Roma. Così egli descrive il fatto: “In hac Jurisd.e duo adsunt Rura , unum nationis Albanentium, nuncupatum Andali sive Aragona, ex hoc Rure Em.mi Domini fuit asportatum Romae ad Bibliotecam Barberinam Missale et Breviarium eiusdem idiomatis, ut mihi retulerunt certi de veritate, et modo et à quo; constat ex nongentis et novem animabus”.

Secondo il vescovo, il messale ed il breviario furono portati via dalla chiesa del casale al tempo di Urbano VIII, Maffeo Barberini, (1623-1644): “Unum Nationis Grecorum vulgo nuncuscantur Albanisi, quorum idioma non est greci sermonis comunis, sed generis Epiri, licet in multis coincidant vocabula, qui tamen more latinorum vivunt, et ex traditione accepi eorum Missale et Breviarium transmissum fuisse ad ipsam Almam Urbem tempore Urbani Octavi fel. Mem.”. Lo stesso vescovo ci informa che nel casale vivevano 466 Albanesi che praticavano il rito latino, i quali tuttavia “plures habebant abusus ab Epiro adductos”.

Durante il papato di Urbano VIII, i vescovi di Belcastro furono: Antonio Ricciulli (1626-1629), Filippo Crino (1629-1631), Bartolomeo Gipsio (1633-1639) e Francesco di Napoli (1639-1651). A quest’ultimo seguì Carlo Sgombrino: “L’anno 1653 all’ultimo di marzo in Belcastro venne il vescovo D. Carlo Sgombrini, successore a Mons.r Fran.co Napoli di Palermo, e il d.o vescovo Sgombrini dell’Oriola, e venne il giorno di luni al trado”.

Tra questi va ricercato colui che portò via il messale ed il breviario e li donò al Papa. Tra i più sospettati sono i vescovi Bartolomeo Gipsio (1633-1639) e Francesco di Napoli (1639-1651). Il primo ebbe il 20 luglio 1633 dal Papa la possibilità di utilizzare per due anni i proventi delle pene della sua curia per le cose necessarie alla cattedrale, e di potersi assentare dalla sede di Belcastro per sfuggire alla malaria ed alle epidemie invernali. Nel 1639 ottenne di lasciare il vescovato di Belcastro per quello di Volturara. Più sospetti si addensano su Francesco di Napoli, che introdusse “observantiam Ceremonialis Romani, et precipue Castaldi tam pro missis, quae leguntur, quam pro missis quae cantantur pro pontificalibus et quovis alio servitio … Libris quoque hoc est Antiphonarii, Gradualis ac Psalterii, quibus chorus canebat propspexi, cum notulis et forma cantus, quorum inopia informiter canebatur, magnis et ex ultima impressione Iunti, innosque novos iuxta Bullam felic. Rec. Urbani 8i obtinui …”, ed aggiunge che, nonostante gli abitanti del casale di Villa Aragona siano Greci, ossia Albanesi, “modumque loquendi conservant, tamen iuxta ritum latinum, omnis dogmatis ceremoniaeque greciae oblita, Christiane vivunt”. A quel tempo la chiesa del casale era fornita di ogni cosa necessaria e poteva contare sulle elemosine degli abitanti tra le quali una dote di 120 capre.

 

Un palazzo del vescovo di Belcastro (?)

Alla metà del Seicento la popolazione è composta da circa 350 abitanti, dei quali 200 “animas communicabiles” e 150 non “communicantes”.

Il vescovo palermitano Francesco di Napoli, pochi anni prima della metà del Seicento, per sfuggire dalla malaria, che infesta nei mesi estivi la città di Belcastro, decide di costruire una sua residenza in un luogo della sua diocesi più salubre, per ristorarsi piacevolmente. Per l’opera egli spese circa settecento ducati: “Meque eiusdem oblectationis causa concitavit incommodum Praelatorum ut noviter Palatium erigerem in quadam Villa meae Cathedrali subdita et ab hac Civitate tribus milliaribus distante, quem locum omnes salubriorem extimant, omnesque mansiones feci desuper terram, quae commode inhabitantur cum accessus occurit et in eas ducatos septingentos hactenque erogavi”.

In questo palazzo sembra che si sia rifugiato il vescovo Giovan Battista Capuano (1729-1748 ?), il quale se ne stette quasi sempre lontano dalla diocesi. Egli entrò in contrasto con i laici, tanto che fu minacciato con la pistola e fu accusato di molti abusi. In una lettera del 4 settembre 1731 diretta dal nunzio di Napoli al Card. Segretario di Stato, il vescovo informava che malgrado l’ordine di carcerazione dei due fratelli Iazzolini, per l’attentato alla sua persona, si sono tutti e due dati alla fuga; uno di essi è poi ritornato in patria più baldanzoso di prima, spalleggiato dal barone del luogo. Perciò per non esporsi a nuovi pericoli, egli ha pensato bene di trasferirsi ad Andali, luogo della sua diocesi.

 

La chiesa di Andali

Il vescovo Carlo Sgombrino così descrive la situazione ecclesiastica del casale nella sua relazione del 1665: Gli abitanti sono di origine albanese e conservano la lingua ma vivono cristianamente secondo il rito latino. In tutto gli abitanti sono 294, dei quali 203 sono di comunione. La chiesa arcipretale è sotto il titolo della SS.ma Annunciazione ed è adeguata al popolo. Essa non ha bisogno di ripari ed è fornita di ogni cosa necessaria al culto. Ha fonte battesimale, conserva gli oli sacri ed è fornita di campana per convocare il popolo. L’arciprete abita in una casa appartenente alla chiesa, che è ad essa unita. Non ha altre rendite se non quelle provenienti dalle decime e dai diritti sui morti. Il tutto ascende a circa 40 ducati annui.

Nella chiesa vi è un solo beneficio semplice di iuspatronato laicale, con la dote di ducati 7 con l’onere di due messe ogni anno al primo possessore, 5 messe al secondo e 60 messe al terzo ed altri possessori. Le messe annue ammontano a 450, unite le messe che sono celebrate dall’arciprete ogni domenica e nei giorni di precetto. Nel casale vi è solo un sacerdote oltre all’arciprete. Non vi sono chierici ma solo due diaconi selvatici per servizio della chiesa, che godono l’immunità e sono esenti da ogni giurisdizione laicale, reale e personale. La chiesa gode di una rendita piccola di non oltre 15 ducati ed è aiutata dalle elemosine degli abitanti per quanto riguarda l’acquisto di cera, olio ed altre cose necessarie.

Abitato da circa 300 Albanesi, che conservano solo il nome e la lingua, vi risiede un parroco perpetuo col titolo di arciprete, la cui rendita appena ascende a circa 25 scudi ed inoltre vi sono altri quattro chierici.Dopo la grave carestia ed epidemia del biennio 1671-1672, nel marzo 1677 la popolazione si è ridotta a circa 150 anime.

 

Il casale di Andali di pertinenza della città di Belcastro

L’insediamento di una nuova comunità in un ambiente boscoso e selvatico in un pianoro vicino ad una sorgente (nel luogo detto “dietro la Chiesa” vi era “viam per quam itur allo lavaturo, et via sursum qua confinat cum funtanella”, cioè la “publica via che conduce alla fontanella, poco distante da questo abitato di Andali”), determinò in breve tempo una ristrutturazione del paesaggio. I nuovi abitanti con i loro animali, cominciarono ad adattare l’ambiente alle loro necessità abitative ed esitenziali. Essi disboscarono alcune parti di territorio avute in enfiteusi o in affitto, le dissodarono, formando orti, vigne, terre a semina ed a pascolo. Vicino alla chiesa ed alla piazza e lungo le vie, che si incrociano ed attraversano il casale, furono costruite le abitazioni. Accanto l’incolto lasciò spazio agli orti, alle vigne ed agli alberi da frutto. Con il passare del tempo e per la quotidiana opera, tutto il territorio circostante assunse una nuova identità in funzione ed in riferimento alle esigenze vitali della nuova popolazione. Se l’ambiente attorno al casale subì un radicale mutamento, dall’altra il feudatario ed i proprietari delle terre, trovarono nella nuova forza lavoro a buon prezzo l’occasione per espandere le terre a semina, in ogni luogo dove era possibile, per aumentare la produzione del grano e la sua esportazione verso il proficuo mercato napoletano. All’inizio del Seicento il casale ed il territorio circostante hanno già assunto un nuovo aspetto.

Esso è governato da un sindaco, un eletto ed un mastro giurato. L’abitato si presenta formato da un insieme di piccole case terranee, spesso isolate tra loro da vie e con accanto dei piccoli orti. Esso si snoda lungo le vie che l’attraversavano e che confluivano nella piazza centrale, dove c’è l’unica chiesa arcipretale, dedicata alla SS. Annunziata. I documenti dell’epoca ricordano la casa di Paolo Tantillo e Francesca Tantillo, vedova di Andrea Cacossa, che era situata sopra la chiesa, mentre una via la separava dalla casa di Domenico Ciancio. La famiglia dei Peta (Todaro, il figlio chierico Paolo, Giorgio, Francesco e Minica Masci, vedova di Petro), occupavano tutto un rione con una “continenza” di case “cum orto contiguo”. Il chierico Francesco Buba e la madre Nescia Stanizzi, vedova di Antonio Buba, abitavano una casa confinante via mediante con quella di Aloisio Carullo e sempre via mediante, con quella della vedova di Paolo Masci. Vi era poi una continenza di case che apparteneva a Ioanne Pennola. Essa confinava via mediante, con la casa della vedova di Petro Dara e la casa della vedova di Antonio Petruzzo.

La toponomastica del casale ricorda anche il campanile, il luogo detto la Cona ai confini dell’abitato ed il rione Celzo.

 

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