Giosafatte Tallarico
Il brigante cosentino Giosafatte Tallarico nel 1889 raccontò d’aver guadagnato nella sua vita da brigante ben 80 mila ducati d’oro e d’argento, oltre a così tanti gioielli da riempire un’intera armeria. A quell’epoca però, non aveva nulla di tutto ciò, restandogli solamente pochi spiccioli per comprarsi un po’ di tabacco e quel tanto di vino da soddisfare una sete inesausta.
Come aveva fatto a perdere tutto in così poco tempo?
Tallarico raccontò d’aver dato quasi tutte le sue sostanze ai “galantuomini”, quelle persone cioè che d’inverno lo ospitavano ma che si facevano pagare in modo esorbitante. Praticamente un brigante che rubava nella buona stagione per procurarsi il denaro per sopravvivere d’inverno ed era messo con le spalle al muro dai signorotti locali che si giocavano la credibilità ospitandolo.
Oltre ad aver ingrassato i “galantuomini”, Tallarico dovette mantenere la moglie e i figli e, alla fine, rimasto senza un centesimo, vendere la casa per pagarsi l’avvocato, mandare la moglie a servizio dal padrone e i figli sulla montagna a pascolare gli armenti.
Un giorno, però, ebbe anche lui una piccola soddisfazione quando, ancora brigante, venne assunto sotto falso nome da un signorotto di un paese del cosentino. All’insaputa della sua presenza, durante un pranzo con amici, il padrone di casa si mise a parlare di Tallarico, auspicando che fosse preso dai carabinieri e consegnato alla giustizia per tutte le sue malefatte. Lo difese un certo Vincenzo Caputi al quale non sembrava affatto vero che Tallarico fosse un brigante cattivo, né feroce né troppo crudele, anzi, era conosciuto come amico dei poveri e soccorritore dei derelitti abbandonati dalla società.
Tre giorni dopo questo fatto, mentre tornava di notte al suo casolare, Caputi sentì una voce sconosciuta che in mezza alla strada gli diceva:
“Di grazia Don Vincenzo, ho da dirvi una parola.”
“Chi siete?” rispose Caputi fermando il cavallo e brandendo la pistola.
“Ecco qui, ho voluto ringraziarvi delle parole che avete detto di me l’altro giorno.”
“Di voi? … E chi siete voi?”
“Son Giosafante Tallarico!”
“Ma dove eravate voi quando io dissi quelle parole?”
“Ero nella sala da pranzo fra quelli che servivano la tavola.”
“Ma vi prego, non dite nulla.”
“Non dubitate.”
“Buona notte.”
E mentre Tallarico scompariva dietro un sentiero, Caputi ripensava a lui come ad un onesto brigante, dileggiando invece l’amico signorotto, tanto galantuomo quanto furfante!
Tratto da “Storie e Leggende Calabresi” di Vincenzo Musca
Le vicende del brigante Giosafatte Talarico si collocano al di fuori
dei due periodi di maggiore diffusione del brigantaggio calabrese.
Esattamente tra il 1823 e il 1845.Le sue gesta vengono ancora narrate
dai vecchi con orgoglio, con una particolare luce negli occhi. Lunghe
sere invernali accanto al camino ho trascorso con alcune persone anziane
di Panettieri che parlavano di Giosafatte come se parlassero del più
puro degli eroi. I loro racconti , pur affaticati dal tempo, erano
ancora vivi, segnati da un’antica suggestione: il ricordo di Giosafatte
vive nella memoria collettiva come il giustiziere che vendicava i torti e
difendeva i deboli. In realtà, sebbene Giosafatte non fosse
propriamente e completamente così, la nostra gente, da mille anni
oppressa, depredata e umiliata aveva bisogno di trovarsi un eroe, un
simbolo, un vendicatore, cui affidare la speranza di una vita migliore,
anzi, direi di una vita! Ma fu da questi racconti che presi a ricercare
riferimenti storici documentati o indizi letterari. Scoprì, anzi
riscoprìi Nicola Misasi. I suoi racconti su Giosafatte, romantici e
affascinanti, ricalcavano esattamente la tradizione popolare. Devo dire
che i racconti di Misasi per un po’ mi hanno rapito. Ma poi sono state
le fonti archivistiche e la bibliografia storica a offrirmi un
determinante contributo di chiarezza anche se i rapporti di polizia
hanno ben altro tono rispetto alle mielose pagine del Misasi o ai
commoventi racconti degli anziani. Ma in sostanza, Giosafatte fu davvero
un personaggio straordinario. Fu davvero sensibile alle ingiustizie e
disponibile ad aiutare i deboli, ma fu anche crudele quando ce ne fu
bisogno. Giosafatte operò in tutta la Sila, dove, all’epoca, agivano
bande ben definite, piccoli gruppi e addirittura individui isolati: le
bande di San Giovanni in Fiore, la banda di Giovanni Roma di Caloveto,
quella di Domenico Falcone detto Vis Vis ed anche una banda di Tiriolo.
Le loro gesta rimangono per la gran parte avvolte nel mistero delle
impenetrabili selve silane e sono ben poche le testimonianze storiche, e
arduo appare rintracciare documenti d’archivio anche perché le
amministrazioni del territorio avevano modalità e confini diversi
rispetto ad oggi. L’ambiente storico e geografico in cui agì Giosafatte
fu la Sila alcuni decenni prima dell’unità d’Italia: la Sila tutta: da
Camigliatello a Taverna, da San Giovanni in Fiore a Panettieri. Nel mio
libro le vicende di Giosafatte sono state ricostruite su tre basi
sostanziali da episodi noti in letteratura, vedi Misasi, o nelle memorie
collettive, inventandone di sana pianta alcune e tenendo presenti
documenti d’archivio. Ho tentato di amalgamare il tutto per darne
un’immagine coerente e unitaria. Sono rimasto quanto più possibile
fedele ai nomi reali dei personaggi storici: è stato così per i
familiari di Giosafatte, per l’ucciso Giacinto Citriniti di Catanzaro,
per gli amici Santo Gentile e Filippo Mussari, per il traditore Tommaso
Brutto, per la compagna degli ultimi anni Giuseppina, per i nomi dei 12
briganti graziati nel 1845, per il procuratore di cz Olivo, per Anna
Moens. Chi era Anna Moens? Anna era una signora inglese venuta con il
marito in Italia per una visita di piacere e per annotare sulle pagine
di un diario le impressioni sul loro romantico viaggio. Solo che un
brigante di Salerno, Gaetano Manzo, rapì il marito e lo portò sulle
montagne. Anna, impegnata a reperire i soldi per il riscatto, soggiornò
anche a Ischia. A Ischia, in quegli anni soggiornava anche Giosafatte
dopo essere stato graziato dal governo. Si conobbero. Il marito fu poi
liberato i coniugi tornarono in Inghilterra e il diario divenne un
libro. Il mio libro su Giosafatte è un romanzo storico. In un romanzo
storico non è necessario che tutti i personaggi siano davvero esistiti,
quello che è importante è che agiscano come si agiva nell’epoca in cui
sono collocati. Occuparsi di storia locale vuol dire essere coscienti
della limitatezza delle proprie conoscenze, sempre suscettibili di
essere sconfessate, ma è per questo che si fa storia, per scoprire dove
si sbaglia, alla ricerca di quell’utopia che si chiama verità storica.
Un romanzo storico risponde ad esigenze di conoscenza e cerca di dare
risposte alle domande più brucianti con la fantasia e con il sentimento
colmando le lacune dell’indagine storica, dando nuovo slancio agli
eventi, dichiarando realtà quello che poteva essere e forse non è stato.
Un romanzo storico è anche poesia della storia! La mia ricostruzione
storica è partita dalla certificazione esistente nel libro dei
battezzati della parrocchia di Panettieri dell’anno 1805. Da contatti
con il comune di Ischia ho avuto il certificato di morte di Giosafatte.
Sulle ultime pagine del libro è riportata copia della richiesta di
grazia fatta da 12 briganti alle autorità politiche del tempo.
Osservando attentamente si potrà notare come le otto firme apposte sulla
parte sinistra del foglio appaiano naturali mentre le altre 4, tra cui
quella di Giosafatte, sembrano scritte da una stessa mano, una mano,
secondo me, più abituata a scrivere delle altre. Di questo fatto ho dato
nel libro una spiegazione squisitamente letteraria. Ho avuto dei
contatti telefonici con il comune di Ischia, con una anziana funzionaria
che mi raccontava dell’esistenza di un medico in un comune vicino,
Lacco Ameno, che si chiamava Carlo Talarico morto negli anni venti e di
due signore figlie di una figlia di questo medico che vivono ancora a
Lacco Ameno. A Ischia opera uno storico locale, Nino d’Ambra, che ha
fatto varie ricerche sui personaggi noti che soggiornarono nella sua
isola. Egli ha scritto un libro intitolato: “Garibaldi cento vite in
una”, nel quale descrive un episodio taciuto dalla storiografia
ufficiale. Si tratta di un incarico dato dai Borboni nel 1860 a
Giosafatte e ad altri briganti relegati a Ischia, di raggiungere
Garibaldi a Palermo e ucciderlo! Nel libro ho compiuto una
ricostruzione letteraria dell’episodio. Giosafatte, ovviamente, non
uccise Garibaldi. L’episodio è narrato anche ne “Le mie memorie” di
Giuseppe Garibaldi dove l’eroe dice che mentre soggiornava a Palermo
durante la spedizione dei mille, fu avvicinato da un barbuto brigante
della Sila pagato dai borboni per ucciderlo e che alla fine costui gli
chiese di essere arruolato nelle camicie rosse! Ho citato quest’episodio
perché pochissimo tempo fa ho trovato il nome di Giosafatte Talarico
dove non mi sarei mai aspettato di trovarlo: in un libro di memorie di
Sigismondo Castromediano intitolato Carceri e galere politiche. Il
Castromediano era un patriota risorgimentale di Lecce incarcerato dai
Borboni assieme a numerosi altri rivoluzionari meridionali in seguito
alle sommosse del 1848 nelle galere isolane di Ventotene, Santo Stefano,
Nisida, Procida. Questo dimostra quanto sempre ci sia da scoprire e
quanto sia suscettibile di sempre nuovi esiti la storia locale. Questo
libro di memorie mi è necessario per delle ricerche che sto facendo sul
Risorgimento calabrese che, spero l’anno prossimo, daranno vita ad un
romanzo storico incentrato sulla vita di uno dei più controversi e
vitali protagonisti di questo periodo storico: Raffaele Piccoli, che ha
attraversato per intero l’Ottocento politico: dalle rivolte di Palermo
del 1848, alle battaglie dell’Angitola dello stesso anno con i gruppi
del nicastrese, allora si chiamava così, oggi lametino. Dalla difesa
della repubblica romana del 1849, alla spedizione dei mille, fino
all’estremo tentativo repubblicano della rivolta di Filadelfia del 1870.
Anche Raffele Piccoli fu nelle galere borboniche dal 1851 al 1857.
Sigismondo Castromediano nelle sue memorie dedicò due intere pagine a
Giosafatte. La sua testimonianza scritta arricchisce le notizie su
Giosafatte, sul fatto che prima che i borboni lo relegassero nella
dorata prigione di Ischia, gli fecero assaporare le loro poco dorate
galere politiche! Ma da ciò emerge un dubbio: la rinuncia ad uccidere
Garibaldi a Palermo, alla luce di questo fatto, può assumere una
coloritura diversa? Fu illuminazione improvvisa a fermare la mano di
Giosafatte, una presa di coscienza politica fulminea, oppure quel gesto
di ripulsa fu la naturale conseguenza di un percorso ideologico che
aveva trovato nelle prigioni borboniche, a fianco dei condannati
politici, un condizionamento essenziale? Quindi, pur scientemente e
arrogantemente, evitando nella sua esistenza di fuorilegge di farsi
coinvolgere nelle sovversioni politiche e nei moti carbonari, Giosafatte
con la sua intelligenza e la sua personalità, restò davvero del tutto
indifferente al sogno rivoluzionario che mosse gli uomini liberi del suo
tempo?
Brigante di Panettieri di Salvatore Piccoli
Giosafatte
vive ancor oggi nella memoria collettiva del suo paese, Panettieri, e
dei paesi vicini, come il vendicatore dei torti, il romantico difensore
dei deboli! Giosafatte fu un brigante solitario e particolare : uccideva
solo per vendetta o per ridare ai poveri quello che l'arroganza dei
baroni aveva loro tolto! La sua abilità nel travestimento, la sua
cultura e soprattutto l'accortezza di non legarsi per troppo tempo a
bande numerose, ma avere solo due amici fedeli: Felice Cimicata di
Taverna e Benedetto Sacco di Castagna, fecero di lui un imprendibile
fantasma, una leggenda vivente! Solo un patto con il monarca borbonico
lo stanò dalle selve silane. Nel 1845 il re Ferdinando II, desideroso di
dare all'Europa un'immagine pulita del suo regno, constatato che con la
repressione non riusciva a venire a capo del fenomeno e insensibile
alle tematiche sociali, vero scoglio insito nella sua mente e
insuperabile dalla sua mentalità, propose a Giosafatte e ad altri
briganti di arrendersi in cambio di una nuova e libera vita lontano
dalla Sila. Giosafatte così venne esiliato nell'isola di Ischia dove
ebbe casa e stipendio. Aveva allora 40 anni e altri 40 visse in completa
tranquillità davanti al mare! Dopo l'unità il deputato nepoletano
Mariani con un'interrogazione parlamentare chiese se fosse giusto
mantenere a spese dello stato un brigante graziato dai Borboni. Non ebbe
risposta. Non fu solo quello il progetto borbonico che i Savoia
perpetuarono nella bella Calabria!
Nato
a Panattieri in provincia di Cosenza nel 1805, dopo essere stato
seminarista, il giovanissimo Talarico intraprese gli studi di
farmacista, ma senza portarli a termine. La sua latitanza iniziò intorno
al 1820, dopo aver compiuto un “delitto di onore” uccidendo un ricco
giovinastro che aveva violentato una sua sorella.
Trovò
rifugio ed operosità sui monti della Sila per più di vent'anni, da
Camigliatello a Taverna, da San Giovanni in Fiore a Panettieri.
Talarico
frequentava , protetto da amici potenti ed influenti, «or travestito da
prete, or da ricco signore, i caffé, i teatri, e passeggiava per le
strade più frequentate».
Essendo
falliti i tentativi di cattura, nel 1844 Ferdinando II intavolò una
trattativa con il brigante calabrese, a cui propose in cambio della
resa, una pensione di sei ducati ed una casa nell’isola d’Ischia.
Talarico
accettò, ma a condizione che il beneficio fosse esteso ai suoi
compagni. Terminava così la carriera del brigante che aveva “fatto
tremare le tre Calabrie”.
La
notizia ebbe eco anche in Inghilterra. Dopo l’Unità fu il deputato
napoletano Mariani a porre la questione al parlamento italiano con
un’interrogazione parlamentare in cui si poneva l’accento
sull’ingiustizia di dare una pensione a tale ex brigante, ma il
Talarico, che soggiornava nell’isola d’Ischia dal 1845, aveva preso
moglie ed aveva delle figlie. Rimase, dunque, nella bella isola
godendosi la pensione fino alla morte avvenuta nel 1886.
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